Antimodernismo e questione maschile







Merita sicuramente molto più di una semplice segnalazione il pregevole ed accurato articolo «Questione maschile – una panoramica» redatto da Armando Ermini e pubblicato sulla rivista telematica “Il Covile” il 7 settembre scorso.
Tra i diversi elementi di interesse di questo contributo – non ultimo, la fotografia d’insieme delle principali posizioni attuali sul tema della condizione maschile contemporanea – c’è soprattutto la forte sottolineatura della sostanziale e ricorrente indeterminatezza del binomio “questione maschile”.
Secondo la ricostruzione proposta dall'autore, infatti, la combinazione semantica delle due parole, più che identificare una problematica chiara e definita, segnala semmai un ventaglio di posizioni differenziate e, in diversi casi, apertamente in contrasto l'una con l'altra, sia sul piano dell'analisi che su quello della sintesi.
Con quella espressione (QM) si vorrebbe infatti identificare sia la posizione di coloro che ritengono necessaria la rifondazione dell’identità maschile su nuove basi psicologiche (progressisti), sia quella di coloro che ritengono necessario il recupero e la conservazione della figura maschile così come l’abbiamo sempre conosciuta (tradizionalisti) sia, ancora, quella di coloro che rigettano semplicemente l'idea che l’identità soggettiva di chiunque debba o possa mai essere una risultante di laboratorio della speculazione politica, riconoscendo in ciò un progetto animato da un intimo e pericoloso vizio totalitario a danno dell'individuo (liberali).
Kouros di Anavyssos
La contrapposizione teorica è comunque sintomo di un’elaborazione sul maschile ancora allo stato nascente, il cui riflesso sta nel diverso significato assegnato alla locuzione QM in chiave politica, in quanto il linguaggio non è soltanto logos (espressione del pensiero tramite la parola) ma è anche e soprattutto nomos (norma, regola, ossia accordo tra le parti e tra pensieri diversi).
Una regola di partenza - una sorta di punto fermo - viene infatti fissata dall’autore in quello che dovrebbe essere il nucleo d’origine (e quindi di convergenza comune) di tutte le posizioni esistenti: ossia, la presa d’atto che «il maschio è in crisi» e che da questa dichiarazione di crisi tragga origine, appunto, la rilevanza di una questione maschile contemporanea.
Prendendo per buona, provvisoriamente, questa definizione, si vuole qui proporre un commento critico all’articolo che, nonostante le migliori intenzioni e l’assoluta mancanza di qualunque intonazione polemica, potrà apparire eterodosso, se non in aperto contrasto, rispetto alle posizioni lì illustrate.
La prima cosa che preme evidenziare, è che durante la lettura dell'articolo ciò che si impone come evidenza immediata è la rarefazione - quasi una sorta di reticenza voluta - del linguaggio politico; tanto nell'uso diretto come sostantivo, quanto in quello indiretto come avverbio il termine «politica» è pressoché assente dal testo.
In modo particolare, l'illustrazione più corposa è dedicata a quei movimenti d'opinione che Ermini racchiude sotto l'etichetta "radicali", i quali sono accomunati - pur nelle reciproche diversità d'approccio - dalla condivisione di una critica sociologica e/o storiografica verso la modernità occidentale intesa, assiomaticamente, come origine del degrado di tutto ciò che attiene al maschile ed al sistema simbolico del suo valore.
Sia che la modernità venga intesa come assoggettamento dell'individuo alla logica del mercato e del consumo (capitalismo) con i correlati effetti di alienazione utilitaristica e strumentale nel bisogno; sia che venga intesa come assoggettamento dello stesso individuo alla Tecnica disumanizzante della società industriale avanzata, che ha abrogato le antiche forme di collaborazione e coesistenza tra i sessi; sia che essa venga ancora intesa come processo di secolarizzazione, che mina dall'interno la struttura familistica della società demitizzandone la figura portante paterna (in stretta consonanza con il declino della figura Paterna Celeste); sotto qualunque angolatura si vogliano osservare i problemi, tutto sembra doversi imputare, secondo i "radicali", alla particolare piega presa dagli avvenimenti storici da almeno tre secoli in qua.
Ora, è innegabile che tra le infinite ricadute che la modernità - questa ciclopica entità, dotata di vita apparentemente autonoma, ma in realtà realizzata dalla volontà degli uomini prima ancora che da quella delle donne - ha avuto sui rapporti sociali ci sia anche l'alterazione e lo snaturamento di equilibri millenari tra persone e cose, tra natura e cultura, tra autenticità e non, tra individuo e società.
Mi si perdonerà, tuttavia, se riassumo il radicalismo di quelle posizioni con un'espressione di derivazione sessantottina che, sebbene possa sembrare irriverente (senza che lo voglia essere), mi sembra che condensi efficacemente la questione maschile da loro proposta in un facile slogan liquidatorio: «è tutta colpa del sistema!».

Quindi, che fare? ....a parte tentare di abbattere il Sistema in modi più o meno rivoluzionari, andare a militare nel movimento anti-modernista di Massimo Fini o cercare di modificare il pensiero filosofico della modernità e quindi della Storia e del Sistema nel loro insieme?
Giova a questo punto morto del problema tornare a quella regola di partenza apparentemente valida per tutte le stagioni - «il maschio è in crisi» - per verificarne la fondatezza, nei limiti di quanto è ad oggi possibile.
In assenza di elementi certi, è fortemente probabile - muovendosi a livelli puramente intuitivi - che laddove venisse effettuato un sondaggio d'opinione al riguardo, esperito su un campione rappresentativo della popolazione maschile, il risultato darebbe torto all'ipotesi di partenza.
Ad essere o a sentirsi in crisi, qui ed ora, sarebbe verosimilmente una minoranza della totalità, composta presumibilmente da quegli uomini che hanno avuto la sventura di "andare a sbattere" contro le prescrizioni giuridiche ispirate dalla cultura politica femminista (padri separati, imputati di false accuse di violenza, esclusi da benefici pubblici per fare spazio alle donne etc.) e/o quella gamma comunque minoritaria di uomini che - qualunque ne sia la ragione - trovano difficoltà a rapportarsi con il mondo femminile (le figlie del femminismo) in modo soddisfacente; oppure, in ultimo, quella gamma di nostalgici che nutrono un rapporto di insofferenza con un certo presente, in quanto ritenuto non conforme alla propria sensibilità (religiosa, culturale, psicologica etc.).
Questa supposizione è avvalorata dal fatto che a farsi carico, ad oggi, di alcuni temi della questione maschile (neanche tutti) dandogli una qualche evidenza pubblica sono solo alcune associazioni di padri separati (neanche tutte), più poche altre persone che, per motivi e con sensibilità diverse, se ne interessano avendo in mente gli obiettivi più disparati (modificare la cultura sessuale, ripristinare antichi codici di condotta, tornare ad una dimensione religiosa dell'esistenza etc.).
Dunque, ne dobbiamo concludere che se non esiste una percezione diffusa della crisi non esiste neanche una questione maschile?
Proviamo, allora, a modificare il punto di partenza, per tentare di renderlo meno soggettivistico, aleatorio e più concreto; diciamo ad esempio «è il diritto ed il concetto della sua funzione ad essere in crisi».
Sembra un tecnicismo astratto ma non lo è.
In quanto - come più e più volte ho teso a rendere evidente - il diritto è espressione della cultura politica dominante, è il precipitato oggettivo e tangibile delle opinioni, delle convinzioni, dei principi e dei valori che attraversano la società, è la cartina al tornasole delle ideologie di moda o delle filosofie politiche di lungo corso.
Se Tizio ha problemi con le donne per motivi di timidezza o senso di inadeguatezza personale, tutto ciò non ha nulla a che fare con la questione maschile; è un semplice problema personale.
Se Caio, invece, ha difficoltà a rapportarsi con l'altro sesso perché teme di essere interpretato come un molestatore o peggio, allora ci troviamo nella questione maschile senza mezzi termini, perché la radice dei problemi di Caio non sta in lui stesso ma al di fuori di lui, nelle prescrizioni vessatorie che la società gli ha cucito addosso tramite il diritto.
Le culture politiche - da cui sgorgano le norme - hanno, inoltre, in sé stesse tutte le diverse radici antropologiche, filosofiche, storiografiche e sociologiche sulle quali la modernità è stata eretta, governata e, spesso, contestata a ragion veduta.
Se oggi, in questa modernità, esiste una questione maschile, esiste perché esiste una sensibilità politica vessatoria per il maschio e propiziatoria per la femmina, che si traduce in norme scritte e codificate, in comportamenti imposti e in pregiudizi di colpevolezza operanti nelle leggi e nelle sedi giudiziarie.
La possiamo anche chiamare colpevolizzazione antropologica ma è lì - nello spazio oggettivo di ciò che è istituzionalizzato - che dobbiamo guardare se la vogliamo riconoscere nei fatti.
Possiamo anche indugiare ad andare alla ricerca delle origini storiche, filosofiche e antropologiche, ma quella ricerca nulla ci dice su come operare nel presente.
Il grande fondamentale problema della questione maschile che vive nell'oggi è, per dirla in modi ultra-semplificati, il positivismo giuridico; quella malsana e odiosa concezione secondo la quale le classi politiche debbono legiferare allo scopo di dettare comportamenti positivi al cittadino, governando non solo la dinamica dei rapporti sociali ma la stessa psicologia dell'individuo.
«Gli uomini devono cambiare» è la grande sfida politica urlata incessantemente dal femminismo di tutte le epoche e intonazioni; il positivismo giuridico - che, certo, non può identificarsi con alcuna concezione liberale di questo mondo - non ha fatto altro che raccogliere quella sfida traducendola in legislazione cogente.
Malauguratamente di tutto questo - che pure dovrebbe rappresentare la polpa viva della questione maschile - nell'articolo che commentiamo non c'è la minima traccia; il che rende quell'articolo un contributo di sicuro interesse ma, altrettanto sicuramente, lo rende largamente incompleto su alcuni punti essenziali.
Naturalmente, l'esigenza di sintesi non consente di inoltrarsi ulteriormente in una problematica di estrema complessità, qui semplicemente accennata nelle sue linee generali e con grande e necessaria approssimazione.
Sarebbe altrettanto necessario ricordare come il riconoscimento dell'esistenza di un diritto naturale sia il grande argine al positivismo giuridico, allo stesso modo di come il riconoscimento di differenze naturali tra i sessi è il grande argine al costruttivismo culturalista.
La materia, insomma, è sterminata e complessa, certo non può essere esaurita in questo momento.
Vale, tuttavia, tenere bene a mente un insegnamento che grandi scienziati sociali come Von Hayek o Karl Popper ci hanno indicato con estrema chiarezza: le scienze sociali hanno un senso ed un ruolo nella conoscenza perché l'agire umano in società produce effetti inintenzionali e imprevedibili, nonostante le migliori e più accurate pianificazioni politiche.
Laddove ciò che esiste in forma sociale fosse solo l'effetto di processi intenzionali - ipotesi di pura e delirante fantasia - resterebbe spazio alla sola psicologia come scienza dell'uomo ed al positivismo giuridico come sua disciplina.
Questa la vera deriva intrapresa dalla modernità occidentale.
Qui, ad avviso di chi scrive, il vero nodo da sciogliere di cui ancora non si tratta nell'ambito della questione maschile.
La quale era, è e rimane a tutti gli effetti essenzialmente una questione politica.