Essere o apparire




Un luogo comune piuttosto diffuso sostiene che un’immagine vale più di mille parole.
In linea generale tutti ne abbiamo sperimentato il significato, prima o poi nella vita, e saremmo portati a confermarlo senza particolari problemi, soprattutto in un’epoca tanto narcisistica come la nostra da fare dell’immagine e dell’apparenza esteriore i valori fondativi di quella parodia della civiltà che è diventato il mondo occidentale.
Tuttavia ci sono immagini e immagini.
Ci sono immagini che “spiegano” e definiscono una situazione, uno stato d’animo, un’impressione o anche un imperativo morale molto più di un discorso ben articolato, certo. Ma ci sono anche immagini che, al contrario, eludono ogni spiegazione razionale lasciandoci nella più totale incertezza sulla reazione da prendere: uno sbotto di fragorose risate oppure senso di rigetto? un pietoso e penoso compatimento oppure una disincantata e indifferente alzata di spalle? una rassegnata invocazione dei bei tempi andati oppure lo sguardo luminoso levato verso il sol dell’avvenire?
Ci sono dunque immagini ed espressioni dell’apparire che ci aiutano a cogliere il messaggio implicito in esse contenuto, veicolandolo con quell’immediatezza che sollecita senza altre mediazioni il nostro intuito e, dall’altro lato, immagini che ci appaiono istintivamente aliene, bisognose di centomila parole di spiegazione per poter essere incasellate in un orizzonte di senso compiuto.
Quest’ultimo sembra essere, almeno al primo impatto, il caso delle immagini che qui vengono postate nella forma “relata refero”, per così dire, in quanto documentano un fenomeno di cui è difficile scorgere le dimensioni reali; pressoché assente nella vita quotidiana delle persone comuni ma pompato a più non posso dai media mainstream, espressione dei “poteri forti” in auge, come tendenza del futuro.  
Si tratta – come ognuno potrà gustare per proprio conto – di immagini maschili “ibridate”, uomini o presunti tali che indossano collant, che mettono tacchi alti, che ancheggiano su passerelle di moda con il baby-doll e la guepière, uomini che, insomma, scimmiottano il modo d’essere e d’apparire femminile. Tutte immagini che da tempo fanno il giro del web e delle riviste di moda sollevando sconcerto, incredulità, sarcasmo, divertimento o addirittura compiaciuto consenso (chissà perché) ma che quasi mai – a quanto se ne può sapere – suscitano riflessioni o tentativi di discernimento e spiegazione.
Di certo ciò non avviene sulla stampa, cartacea o elettronica, dove il fenomeno viene descritto puramente e semplicemente come tendenza della moda o come settore in espansione ("La nuova idea miliardaria del comparto intimo è il collant per uomo" si legge ad una semplice ricerca) ma dove le implicazioni in termini culturali, sociali, antropologici e persino psicologici – scansati per un momento gli sterili aspetti economicistici - sono sistematicamente ignorati o lasciati all'improvvisazione pressapochista e caricaturale dei social.
Si legge infatti su Panorama.it che “…in Inghilterra e America dove da tempo spopolano, i brand fanno a gara per introdurre la linea di collant per maschi. La catena UK Tights, lo scorso anno, ha dichiarato che il 40% dei guadagni derivano proprio dai collant per uomo. La prima azienda ad ideare e ad investire in un indumento del genere è stata l'americana G. Lieberman & Sons, che ha pensato ad una tecnologia specifica per la sudorazione maschile. Oggi però sono sempre di più i brand che producono collant da uomo, come Wolford, Gerbe, Emilio Cavallini, Falke e ora anche Gerbe.”
Al di là della verosimiglianza di certe proiezioni (sfido chiunque a dimostrare che frotte di uomini sono soliti indossare collant, in giro non se ne vedono, almeno da noi) nulla viene detto sull'assurdità di un comportamento che non appare certo dettato da esigenze di comodità, di praticità o di buon gusto ma che, all'opposto, tradisce una crescente difficoltà ad impersonare l’identità maschile in modo naturale e conseguente, quasi che questa debba essere emendata, rivista e corretta in conformità di certi valori dominanti, politici prima ancora che culturali. E che si associa e si integra con l’altrettanto diffusa ostilità della cultura mainstream e della moralità di massa a considerare la virilità un bene umano da accogliere e tutelare.

A dimostrazione del fatto che le parole servono almeno quanto le immagini, il perché di questa generale correzione politico-antropologica in corso ce lo ha spiegato molto bene la poetessa Sylvia Plath con il suo celebre «Ogni donna ama un fascista», espressione sintetica con cui la virilità è automaticamente posizionata sul lato sbagliato della storia, perché se sei un uomo e senti di esserlo così come ti viene – usando determinazione, polso fermo ed anche quel tanto di aggressività che così spesso serve nella vita, non escluso nel sesso, come vorrebbe la poetessa - in fondo (ma neanche troppo) vuol dire che sei un reazionario, un autoritario, un violento, un fascista insomma, da scansare e condannare coram populo.
Ecco che allora per riposizionarsi sul lato politicamente corretto della scena sociale occorre sembrare di essere qualcosa di diverso da sé stessi, occorre rassicurare di avere capito la lezione, di essere indirizzati verso quella femminilizzazione che è garanzia di antifascismo, democraticità e pacifismo.
Occorre apparire, insomma, piuttosto che essere, se si vuole essere ammessi nel consorzio delle persone politicamente orientate al bello e al bene, secondo una vulgata perbenista tanto solidificatasi nella psicologia collettiva quanto poco ragionata nelle sue assurde implicazioni logiche.
“Donna è bello” – il famoso slogan femminista degli anni passati - è stato specularmente completato da “uomo è brutto”, a pensarci bene, ed ecco perché vanno di moda i collant per uomo o si vedono ancheggiare in maniera comica distinti signorini che mirano a liberarsi della loro virilità.
Ma quando per essere socialmente accettati si sente il bisogno di tradire sé stessi, di camuffarsi e di sentire il proprio sesso biologico come una tara di cui liberarsi, non bisogna essere degli psichiatri per comprendere che il disturbo è più profondo e drammatico di quanto si voglia ammettere. E che la rappresentazione esteriore di una maschera che si traduce in mascherata è penosa e imbarazzante, prima ancora di essere grottesca.
Sì è vero, un’immagine vale più di mille parole e queste immagini ci dicono cose folli.
Ma solo in una società malata che ha seppellito l’autenticità sotto le rappresentazioni ideologiche, il buon senso sotto al piagnisteo, l’essere sotto l’apparire.